sabato 28 settembre 2013

Evoluzione del concetto di carboidrato e del suo effetto sul metabolismo

Evoluzione del concetto di carboidrato e del suo effetto sul metabolismo.


A cura di Grazia Sansone. Laureata in fisioterapia, terapista manuale, istruttrice di fitness e bodybuilding.



Con l’insorgenza crescente di patologie croniche e metaboliche, è nata l’esigenza di classificare gli alimenti per monitorarne gli effetti postprandiali sui parametri fisiologici, poiché una grande quantità di evidenza scientifica ha suggerito che lo stato postprandiale rappresenta un fattore contribuente dello sviluppo di malattie croniche.1,2,3,4 In soggetti diabetici, ad esempio, dopo i pasti si verifica un grosso e prolungato incremento della glicemia, ossia la concentrazione di zucchero (glucosio) nel sangue. Gli alimenti hanno diverse capacità di provocare una risposta glicemica e

quella maggiore deriva dall’assunzione dei carboidrati.1,3,5

Inizialmente, è stata introdotta la teoria dell’isodinamismo degli alimenti, formulata dall’austriaco Rubner nel 1885, secondo cui i diversi principi nutritivi hanno pari importanza al fine di produrre il fabbisogno calorico giornaliero utile all’organismo.6 L’isodinamismo è stato presto screditato, riconosciuta l’importanza della qualità e quantità dei principi nutritivi degli alimenti, oltre che del loro stretto legame con la quota di calorie assunta dalla loro ingestione.6 Sono state, così, presentate, nei paesi industrializzati, delle linee guida sull’alimentazione, che raccomandavano tutte circa il 45-65% delle calorie proveniente dai carboidrati, il 10-35% dalle proteine ed il 20-35% dai grassi, limitando quelli saturi, trans ed il colesterolo.2,6,7 Tali indicazioni sono state fornite allo scopo di ridurre la quota di grassi totali assunti, credendo fosse la causa dell’alta incidenza di malattie cardiovascolari. Negli ultimi 25 anni si è arrivati a consumare più carboidrati e meno grassi, avvicinandosi alle ripartizioni caloriche giornaliere raccomandate,2 ma poco è cambiato sull’evoluzione di malattie e disordini metabolici. Anche per questo, le raccomandazioni si sono rivelate poco esaurienti su come utilizzare gli alimenti: è stato riconosciuto che il concetto di calorie è limitante e che il termine “carboidrato” descrive un macronutriente differenziato. Pertanto, si è passati a considerare la composizione chimica dei carboidrati, dividendoli in due grandi gruppi: semplici e complessi.2,6,8 Tra i carboidrati semplici vi sono i monosaccaridi (glucosio e fruttosio) e i disaccaridi (saccarosio, maltosio e lattosio); tra i complessi l’amido (lunga catena di glucosio) e la fibra.2,6,8

Come suggerisce il nome stesso, i carboidrati semplici vengono rapidamente assorbiti, poiché il monosaccaride è una molecola semplice che non necessita di trasformazioni metaboliche per essere utilizzata come combustibile dalle cellule.2,6 Però, la ricerca ne ha evidenziato gli effetti deleteri sul metabolismo di lipidi e glucosio: soprattutto il fruttosio ha mostrato favorire l’aumento dei trigliceridi.2,6,9 Da qui la maggior considerazione per i carboidrati complessi, elogiati sia per l’alto contenuto di fibre che li caratterizza, sia per il controllo glicemico che garantiscono.2,6 Le fibre, grazie alla loro capacità di legare l’acido biliare e di organizzarsi in masse viscose a livello intestinale, sono in grado di interferire con l’assorbimento dei nutrienti, tra cui il colesterolo, producendo un miglioramento del quadro lipidico;2,6 invece, la capacità di mantenere la glicemia costante nel tempo deriva dal lungo lavoro che deve subire la complessa struttura a catena dell’amido per essere scissa e convertita in glucosio, il ché assicura all’organismo un rifornimento lento, senza il rischio di picchi e successivi crolli repentini del livello di zuccheri nel sangue, tipici dei carboidrati semplici.6

È stato, però, riconosciuta la difficoltà di selezionare gli alimenti sulla base del contenuto di carboidrati semplici o complessi, perché molti cibi contengono entrambi.2 Inoltre, nel 1981, Jenkins e colleghi si sono resi conto che la lista dei carboidrati, che ha regolato l’alimentazione dei diabetici per più di 3 decadi al fine di controllarne la glicemia, si era basata solo sull’analisi chimica dei cibi e sui carboidrati disponibili contenuti negli alimenti.1,8,10 Ma, dal momento che la glicemia postprandiale subisce l’influenza della natura del carboidrato, delle fibre e del tipo di cibo ingerito, e che la sua riduzione costituisce parte della strategia per la prevenzione e cura di diabete e malattie cardiovascolari, hanno sottolineato l’importanza di sostituire la lista sulla composizione chimica degli alimenti con il concetto di indice glicemico (IG), nel tentativo di classificare i carboidrati di alimenti differenti secondo gli effetti sulla glicemia postprandiale.1,3,4,5,8,9,10,11 L’IG viene definito come l’area sottostante la curva glicemica a 2 ore dal consumo di un alimento contenente 50g di carboidrati, divisa per l’area sottostante la curva di un alimento standard (glucosio o pane bianco), contenente anch’esso 50g di carboidrati, consumato dallo stesso soggetto.1,2,3,4,5,8,12 Si tratta di una misura della qualità dei carboidrati in relazione alla disponibilità di glucosio ed è indipendente dalla quantità.11 Brand-Miller e colleghi hanno definito basso un IG minore o uguale a 55, alto se maggiore o uguale a 70.10 La distinzione sembrerebbe importante dal momento che i risultati hanno mostrato la diretta correlazione tra risposta glicemica postprandiale e tipo di carboidrati ingeriti.3 Alimenti con alto IG vengono digeriti e assorbiti rapidamente, provocando alti picchi di glucosio ematico con rapide discese sotto il valore iniziale; tali fluttuazioni, invece, non si verificano con cibi a basso IG.3,9
L’applicazione dell’IG ha, dunque, permesso di incentrare l’alimentazione su alimenti a basso IG, poiché si è visto come questi, al contrario dei cibi ad alto IG, siano stati in grado di:

1) migliorare il controllo glicemico, attraverso la riduzione delle concentrazioni di glucosio ed insulina ematici e la riduzione della resistenza all’insulina;1,4,5,7,9,12

2) di incentivare la perdita del peso corporeo, migliorando l’accesso ai combustibili metabolici immagazzinati e riducendo il senso di fame.7,9

3) prevenire e curare i disordini del metabolismo lipidico e glucidico, infiammazioni croniche e malattie cardiovascolari.4,5,7,9,12





Però, quando ci si è resi conto che la risposta glicemica postprandiale è influenzata non
solo dalla qualità, ma anche dalla quantità dei carboidrati assunti, da proteine, grassi,
fibre e nutrienti contenuti nell’alimento ingerito e dalla cottura ed altri processi di
lavorazione subiti dagli alimenti, è stato introdotto il concetto di carico glicemico (CG).5,8,11,13
Il CG viene definito un prodotto dell’IG di un dato alimento moltiplicato per i grammi di carboidrati contenuti.2,4,5,10,11,13 Rappresenta, in sostanza, un indicatore della richiesta di insulina a seconda dell’alimento ingerito,11 poiché fa riferimento all’ammontare totale di carboidrati assunti (il carico appunto), e non al tipo o alla fonte di carboidrati.2,7,13 Anche se IG e CG sono strettamente correlati, rappresentano modi differenti di valutare la risposta glicemica.8
Riassumendo, dal grossolano calcolo delle calorie, si è passati alla classificazione dei carboidrati in semplici e complessi, superandola poi con quella dell’IG; adesso si è giunti alla considerazione che classificare i cibi secondo il CG potrebbe spiegare meglio gli effetti dei cibi ricchi di carboidrati sul crescente sviluppo di malattie croniche e sindromi metaboliche.15 A dispetto delle raccomandazioni alimentari di decenni fa, infatti, si fanno sempre più forti le teorie sull’evoluzione dell’uomo:14-15 per milioni di anni l’uomo è stato cacciatore-raccoglitore ed il DNA non ha potuto far altro che plasmarsi su questo stile di vita. Ciò sta a significare che l’organismo umano si è adattato a piccole quantità di zuccheri, necessitando, però, di alte percentuali di proteine, grassi e fibre (ricavate dalla verdura e non dal cereale).14-15 In conclusione è possibile affermare che è sufficiente fornire un piccolo CG a pasto per garantire il controllo della glicemia, la funzionalità organica e prevenire/curare patologie croniche e degenerative.

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